Trento, 26 aprile 2007
«QUALCUNO MI DOVEVA UCCIDERE NEL 1977»
Marco Boato, veneziano, parlamentare: «Sempre contro la violenza.
Ma un’anima del Movimento, allora, parlava di guerra armata»
«Fui testimone a processi contro Br e Gap.
Quell’anno un ragazzo, a Bologna, tirò fuori qualcosa:
gli rimisi le mani in tasca.
Scappò nel corteo»
Intervista de Il Gazzettino di giovedì 26 aprile 2007
A Povo, paesotto un po' più alto di Trento, Marco Boato, senatore, vive con la moglie in una grande vecchia casa dove i mobili quasi scompaiono sepolti da libri, borse con ritagli di giornali, foto, quadri, manifesti. Caffè? Sì. «Ho scoperto, sa - quando da deputato radicale giravo per le carceri - che mi dovevano uccidere, nel 1977». È un fiume, Marco, quando parla del “Movimento” e di quel ‘77.
L’anno in cui non è morto. L’anno nel quale furono uccisi a Bologna lo studente Lo Russo, a Roma Giorgiana Masi e poi Walter Rossi e tanti altri. L’anno nel quale a Padova esplose Autonomia e finì il Movimento pieno di idee e novità sociali. È un fiume quando rievoca, con memoria prodigiosa, nomi, eventi, climi: inquadra tutto, rende logico ogni quadro economico, politico, universitario.
Chi la doveva uccidere?
«Qualcuno di Prima Linea in un carcere mi disse: c’era chi ti voleva ammazzare, a Bologna, nel 1977».
Cosa accadde a Bologna?
«Avevo firmato io, in Questura, la richiesta per il corteo contro la repressione. Durante la manifestazione (che fu enorme) vidi con la coda dell’occhio uno in giaccone nero che, mani in tasca, si stacca dal corteo e si avvicina. Mi era alle spalle: ho avuto una percezione di pericolo, mi sono girato e gli ho rimesso le mani in tasca. Aveva estratto qualcosa, non vidi bene. Lui si re-infilò nel corteo...».
Perché il 1977, l’anno nel quale è finito “Il Movimento” e hanno cominciato a prendere piede Autonomia Operaia a Padova e le Br hanno avuto più forza? Perchè non è stato un anno di trasformazione per l’università?
«Il fenomeno ‘77 è prevalentemente legato ad un ceto studentesco molto proletarializzato ma, starei per dire, disperato, senza prospettive...».
Da Trento come appariva quella realtà?
«Trento fu l’università che più ebbe innovazioni. ‘Producendo’ una quantità di leader: da Celli (direttore Rai) a Pino Arlacchi, diventato vice segretario all’Onu per la droga, a Magnabosco, direttore del personale di Fiat. Gente che ha occupato l’università dormendoci in sacco a pelo. Ho le foto di Aldo Bonomi in testa al corteo, inizio anni ‘70».
Si capisce già che il ‘68 non si ripeterà?
«Il ‘68 in Italia cambia politica, costume, religione, i partiti stessi. Trovo ancora adesso dappertutto ‘i ragazzi del ‘68’, un movimento che si potrebbe definire di estrazione ‘borghese’. Nel ‘77 c’è una nuova esplosione ‘alternativa-antagonista’, ma senza canali di confronto politico; anche senza ‘ideali’ direi».
Tutto comincia con la contestazione di Lama (Cgil), all’università di Roma?
«Non solo. Si era anche consumata l’intera generazione del ‘68. Arrivano nuovi linguaggi e differenti attese».
E Lotta Continua si scioglie nel 1976...
«Adriano Sofri di recente ha detto: è una cosa molto affascinante sciogliere un partito. Lotta Continua sente l’impatto col movimento femminista, e si scioglie. Il gruppo dirigente veniva visto dalle femministe come ‘potere’».
Il Triveneto sente lo scricchiolio provocato da chi vede solo un’uscita armata...
«Ho partecipato alla fase del ‘77 e ho avuto un ruolo significativo nel convegno di settembre di Bologna contro la repressione, tentando di mantenere il Movimento in una fase di contestazione politica e non di eversione».
Sofri disse: «Boato sfidò la rappresaglia teppistica».
«Ho rischiato il linciaggio al Palasport di Bologna nell’assemblea di settembre, gestita da Autonomia. Non volevano farmi parlare. Dopo due giorni di attesa ho preso il microfono. Quindici minuti divisi tra brevi frasi e ondate di fischi. Urla e altro prodotte da una bolgia di 10mila persone, in gran parte di Autonomia; altri erano di Lotta Continua».
Le sue tesi?
«Avevo dato la mia giacca a Luigi Bobbio, non so che succederà, dissi, me la ridai dopo. Ho spiegato il ruolo del movimento, sostenendo che non era con la violenza politica (che avrebbe prodotto altri ‘prigionieri politici’) o provocando situazioni di conflitto armato (che avrebbero portato in galera altra gente) che quel movimento avrebbe avuto uno sbocco».
Reazioni?
«Uno dei collettivi politici padovani (che ritrovai successivamente in galera e che credo oggi sia latitante a Parigi) si alzò contestando il mio diritto a parlare e sostenendo che mi conoscevano bene... C’era Scalzone, che disse: ‘Noi consideriamo una provocazione il solo fatto che Boato abbia chiesto di parlare qui dentro’. A Scalzone diedi poi una mano per uscire dal carcere nel 1981. E lui scappò».
Infine?
«Esplose una rissa gigantesca a sediate (prima di entrare tutti venivano perquisiti) tra Autonomia e Lotta Continua. Qualche ferito. Venni salvato da un cordone di amici».
Stava per esplodere un sistema di lotta armata?
«Molta della gente che era lì a contestarmi l’ho ritrovata negli anni successivi in carcere. Ho cercato di aiutarla dal punto di vista carcerario e politico: andavo a visitare anche i detenuti di destra».
Dicevano?
«Uno, e c’era anche il direttore delle carceri presente, disse ‘se noi fossimo fuori io le sparerei’. Replicai: ‘come vede forse è opportuno che lei rimanga ancora un po’ qui’. Ma un altro, di Padova, uscito da Rebibbia venne a ringraziarmi, all’Università».
Torniamo al Movimento che si sviluppò da febbraio a settembre 1977.
«Un episodio spiega quel momento. In una riunione (marzo) del Comitato centrale del Pci Cesare Lupolini, filosofo, pronuncia una frase storica: ‘Ci è caduto addosso un pezzo di società e non ce ne siamo neppure accorti’. Mi trascino quella frase da 30 anni».
Perché?
«Spiegano più di un trattato politico. Il più grande partito comunista d’Occidente nel 1976 ebbe un successo strepitoso. Ma non riusciva a capire cosa stesse accadendo. Il Movimento aveva due anime: una creativa libertaria e antiautoritaria e poi (ed emerge con forza) quella della violenza politica. La prima ha come riferimento il quotidiano di Lotta Continua. L’altra i gruppi organizzati dell’Autonomia operaia che sono gli eredi di potere Operaio (che si chiuse nel ‘73-’74). Ma il terrorismo vero e proprio è fuori di queste formazioni».
Lei fu testimone contro Br e Gap (Gruppi armati proletari) a Milano nel 1974.
«Dal giudice De Vincenzo. Avevo rilasciato una lunga intervista a Panorama. Tutti dicevano ‘Br sedicenti tali’. Spiegai che cos’erano davvero le Br. Successivamente testimoniai ad un processo a Torino durante il sequestro Moro. Feci un appello a Curcio per la vita di Moro...».
Poi verrà il ‘teorema Calogero’ nel 1979.
«L’errore di Calogero non fu quello di aver perseguito la violenza, aveva il dovere di farlo, bensì di aver saldato Autonomia con le Br. Erano due fenomeni diversi. Calogero vede Negri a capo di una cupola con Autonomia e Br...».
Ma la violenza politica diffusa c’era già all’interno del movimento di Autonomia operaia!
«Il terrorismo agiva ma era ‘estraneo’. Curcio fa la rivoluzione ma c’è chi cerca di farla anche dentro le fabbriche o nei quartieri; chi con l’esercito clandestino. Lo due cose si intersecano a partire dal sequestro Moro nel 1978. Nel 1977 le Br guardano al Movimento come ad un fenomeno di marziani».
È davvero finito quel 1977?
«Nel 78 scrissi, in un libro: ‘Oggi il movimento si conquista anche una nuova concezione della vita e lotta (...) contro la devastazione umana e morale che l’ideologia della morte cerca di provocare al suo interno. Si può accompagnare al cimitero (gli slogan erano spesso litanie di morte (ndr) uno dei propri compagni assassinati inneggiando ad altre morti, ad altri cimiteri?’ Ma molti non capirono».
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